“6 maggio, ore 21” di Giampiero Ruggieri

Ero in camera mia, avevo 17 anni, e stavo finendo un compito scolastico.  Avevo appena realizzato un’ipotetica copertina di un ipotetico disco di Frank Zappa. La materia era “ornato” e questo lavoro sarebbe finito nella cartella de presentare a fine anno. Non era venuta male, pensavo soddisfatto.

Insomma, ero lì, in piedi, davanti al mio lavoro quando ho sentito un boato, sordo, profondo. Un rumore mai sentito prima, che mi paralizzò.

Subito dopo un tremore si impossessò di me e di quello che c’era attorno a me.

Non so quanto tempo è durato. Mi sembrò tantissimo, ma il tempo non è sincero, spesso imbroglia.

Sarebbe facile, adesso, immaginare la scena come se si fosse all’interno di un film, con quei rallenty esasperati e la cinepresa che ti gira intorno. Ma in quel momento, nel ’76, Matrix non era neanche stato immaginato.

Fui, invece, riportato alla realtà dal resto della famiglia che era uscita dalle altre stanze urlando: terremoto, terremoto! terremoto? ma com’è possibile, da dove viene? Non l’avevo mai sentito così forte! Che si fa? Tutti fuori, fuori, in strada!

Io abitavo in un palazzo, al quinto piano. Facemmo le scale quattro a quattro, ma non solo noi. Anche i nostri vicini stavano scappando e così ci ritrovammo tutti quanti in strada.

In uno stato di sovreccitazione parlavamo, raccontavamo cosa stavamo facendo nel momento in cui era arrivata la scossa; ed è strano come, anche a parlarne dopo tanti anni, le persone si ricordino esattamente cosa stessero facendo in quell’istante, quasi che il terremoto abbia creato una crepa anche nello scorrere abitudinario del loro vivere.

Non c’erano notizie, non potevamo sapere cosa era successo o cosa stava succedendo intorno a noi, d’altronde allora le informazioni viaggiavano lente.

Solo dopo qualche ora arrivarono scampoli di notizie attraverso un passaparola che parlava di radioamatori, di voci arrivate dall’etere, pare, dal Friuli. Ci sono danni, si diceva, ci sono forse morti.

Noi si aspettava, continuando i nostri racconti attorno ad un improbabile bivacco che qualcuno aveva reso più confortevole portando in strada sedie, paltò e qualche caffè.

Molti passarono la notte in auto, una notte che poco lontano fu di dolore e di morte.

Io la trascorsi girovagando per il quartiere con l’amico di sempre, facendoci beffe delle paure degli altri, solo per nascondere le nostre.

Per noi fu soltanto una notte da vivere fino alla fine, scaldata da chiacchiere e sigarette, come solo un paio di adolescenti sanno fare, sprezzanti del mondo che gira loro intorno, convinti di essere loro stessi il mondo. Una notte da vivere fino alla fine, solo per l’inspiegabile voglia di fare mattino, di vedere sorgere il sole, nella speranza di trovare la forza per resistere a tutti i terremoti a venire.

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