“Sotto ogni porta” di Andrea Rigato

Ho iniziato a scavare con un piccone trovato chissà dove. All’alba io e quel piccone eravamo già una cosa sola. All’alba ho visto due piani di macerie sopra casa mia. Hanno detto che la strada giù a valle è franata. Niente ruspe. Siamo isolati. Siamo soli. Soli in mezzo a mucche impazzite fuggite fuori dai recinti.

Per venti ore ho scavato pianto e pregato. Pregato pianto e scavato. Ho spostato la sabbia a manciate. Ho spostato con le mani pietre e blocchi di cemento. E poi vetri e ferri arrugginiti che si sono mangiati la mia carne. Ogni volta che asciugavo le lacrime col dorso della mano respiravo l’odore del mio sangue. Se è il mio sangue, allora sono vivo. Sono vivo io, sono vivo. Perché io sono vivo? Perché non son rimasto a casa anch’io a guardare la tivù?

Ieri sera avevo una famiglia. Ieri sera avevo una casa. Era un paese, questo. Un borgo di ostinati montanari.

È notte, di nuovo. Piove, adesso. Una pioggia gelida e feroce che si mescola alla nebbia calata giù dalla montagna. Il gruppo elettrogeno, giù nella piazzetta, è un motore lontano che anima un’inutile luna artificiale. Dobbiamo smettere. Dobbiamo aspettare, dicono. Aspettare che sia giorno, dicono. Aspettare domani, dicono. Perché la notte esiste?

Dalla notte sbuca un fantasma. Ha un giubbotto catarifrangente e un paio di stivali rossi. Riesco a vedere solo il bianco dei suoi occhi.

Un africano.

Mi appoggia una mano su una spalla. «Siediti», dice, «Fermati». Mi faccio cadere sul cumulo di mattoni dietro di me. Lui mi si siede accanto.

Frugo nella tasca della giacca fradicia. Sigarette. Ero uscito di casa per comprarle. Il fumo uccide. A me invece purtroppo mi ha salvato. Offro una sigaretta all’africano. Mi fa segno di no, muovendo una mano nel buio.

«Fuma», gli dico. Lui accetta. Nel silenzio che ci avvolge, lo schiocco metallico dell’accendino sembra uno sparo. Per un istante intravedo il suo volto tremolante. Una faccia gentile.

«Che ci fai qui?», gli domando.

«Aiuto. Do una mano».

Restiamo in silenzio. C’è un odore umido e atroce di gas e calcinacci. C’è l’odore della morte, nascosta tutto intorno ad aspettarci. Nemmeno il fumo me la toglie dai polmoni.

«Oggi ho salvato un gatto».

Lo dice con un’aria triste. Un gatto, penso. Ha salvato un gatto. Soffio fuori il fumo e muovo la testa come a dire che ho capito.

Ho negli occhi quell’ultima immagine di ieri sera. Lidia che cucinava il pollo. L’odore buono delle patate nel forno. Mattia dentro alla culla che giocava con la sua pallina verde.

Tenete duro. Domani arrivano le ruspe. Resistete. Ancora un giorno, per favore.

Per favore.

Per favore.

Per favore.

«Dimmi di questo gatto».

È la mia voce, ma è uscita da un luogo oscuro e lontanissimo. Lui mi racconta di questo gatto, incastrato sotto una porta. Saltato fuori di colpo e filato via in un lampo.

Mi guardo le mani. Sono mani che hanno dieci anni in più. Con la pioggia qualche grumo di sangue se ne sta andando via. Le sfrego per scaldarmele e lavarle insieme, poi me le passo sulla faccia.

Un gatto, penso.

Un gatto.

Sotto a una porta potrebbe esserci Mattia.

Devo cercare una pallina verde. Devo guardare sotto a ogni porta.

Domani alzerò una porta e troverò Mattia.

Mattia può farcela.

Mattia è grande come un gatto.

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