Franco Buffoni, disobbedienza e lealtà

Si è conclusa ieri la nostra seconda giornata del festival con uno dei protagonisti della poesia italiana contemporanea, Franco Buffoni. Nato a Gallarate nel 1948, Buffoni è professore ordinario di Critica letteraria e Letterature comparate presso l’Università degli studi di Cassino.

Il pluripremiato poeta e traduttore ha dato il via alla sessione dedicata alla lirica del festival, proponendo riflessioni su alcune tra le sue raccolte più note, da Quaranta a Quindici del 1987 a Pettorine arancioni e altre poesie del 2016, e leggendo una selezione di poesie dalla sua ultima silloge, La linea del cielo.

L’incontro, svoltosi al Palazzo dei Trecento alle 18.30 e presentato da Andrea Breda Minello, si è aperto con una riflessione del relatore sull’aggettivo “leale”: il termine serve a portarci nel mondo poetico di Buffoni che, in un suo saggio, sottolinea l’importanza della lealtà poetica, esistenziale e umana. Buffoni ha poi messo in luce la sostanziale differenza con la “fedeltà”, che richiama invece il tradimento, la confessione e altre “cose fastidiose”. In virtù di questa differenza, ha ragionato sul valore e sulle difficoltà della traduzione, in particolare di quella poetica. Spesso infatti i traduttori sono costretti a dover trovare il modo migliore per passare da una lingua all’altra, cercando di essere il più fedeli possibile alla versione originale mantenendone la struttura, ma rendendone contemporaneamente il significato; c’è quindi in questi casi la necessità di essere più “leali” e meno “fedeli”, concedendosi qualche licenza al fine di preservare il senso profondo del testo.

Il poeta ha ricostruito la propria genealogia, spiegando di sentirsi «un lombardo che vive a Roma», cioè, dal punto di vista poetico, qualcuno che cerca di coniugare due stili diversi, quello della “linea lombarda” e quello della “linea appenninica”.

Ha quindi letto La cravatta di Sereni, dedicata contemporaneamente al padre biologico e a Vittorio Sereni, padre putativo del suo fare poetico.

Al termine dell’incontro abbiamo avuto l’occasione di porre qualche domanda all’autore.

 

Come ha influito il suo percorso di studi sul suo modo di sentire e intendere la poesia?

La mia educazione, fin dalle elementari, è stata improntata allo studio della poesia, quindi inevitabilmente ho imparato le strutture metriche della lirica italiana. In seguito ho scritto una tesi su Joyce e Proust; sono dei narratori, ma dobbiamo considerare che la grande narrativa comunque ha un respiro, un ritmo, che ricorda l’andamento della poesia. Il mio studio quindi mi ha aiutato poi nel lavoro poetico. Le letture, la traduzione, soprattutto dal greco, dal latino, dall’inglese sono state fondamentali, ma da sole non sono sufficienti. Con tutte queste cose che ho appena detto, non fai un poeta, fai un versificatore; il poeta lo fai quando a tutto questo aggiungi un contenuto, un’urgenza, una verità profonda. È la vita che decide se tu hai qualcosa da dire.

Abbiamo letto alcune sue poesie e ci siamo accorti che il tema della disobbedienza vi ricorre spesso. Abbiamo interpretato correttamente la sua opera?

Quando una cosa viene imposta, soprattutto a un giovane, è difficile che venga accettata acriticamente. Se non viene compresa e anzi viene vista come imposizione, il giovane si ribella. Io credo che il “proibizionismo” sia sbagliato dal punto di vista educativo. Sono stato in Inghilterra per diversi anni e ho visto ragazzi ubriacarsi tutti i venerdì sera, nonostante fossero nati in famiglie in cui l’alcool era tenuto sotto chiave. Io non mi sono mai ubriacato nonostante in casa mia il vino fosse sempre a tavola e le bottiglie di liquori fossero a disposizione.

Articolo di Edoardo Chiarenza e Anna Casellato

(Foto di Paola Bellin)
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