I racconti vincitori della Challenge di Young23

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Strepitoso successo ieri alla Challenge di CartaCarbone!
Sala gremita con più di 250 posti, entusiasmo dei ragazzi che, facendo un tifo da stadio, hanno votato i racconti selezionati fino a decretare il vincitore.
Treviso città della letteratura ma anche della scrittura, leit motiv di CartaCarbone, che lavora per diffonderla, farne capire l’importanza e dimostrare quanto ci si può divertire anche raccontando. La partecipazione parla chiaro sullo slancio dei giovani, e noi continueremo a lavorare perché cresca sempre di più!

Ecco le 16 squadre presenti e finaliste:

  • Calipso – Istituto Alberini
  • Le scrittrici di classe – Collegio Salesiano Astori
  • Gli scienziati scrittori – Collegio Salesiano Astori
  • Le pleiadi – Liceo Classico Giorgione
  • Top G – ITIS Max Planck
  • Faceless Writers – Liceo Classico Giorgione
  • Fiori di campo – Liceo Linguistico Canova
  • Listina – H-Farm International School
  • Le pizzette – ITT Mazzotti
  • Ladies Gaga – Collegio Salesiano Astori
  • H-Writers – H-Farm International School
  • Gli esiliati – Liceo Amedeo di Savoia Duca D’Aosta
  • Five Fabulous – Liceo Amedeo di Savoia Duca D’Aosta
  • Senza Nome – Liceo Classico Giorgione
  • Masty Lovers – Liceo Amedeo di Savoia Duca D’Aosta
  • Le pulci – Liceo Antonio Canova

 

Questi i 4 racconti delle 4 squadre finaliste e vincitrici.

Quarti Classificati

Gli scienziati scrittori

Collegio Salesiano Astori

“La più grande sconfitta dell’umanità”

Andiamo al fronte, più ci avviciniamo, più l’aria si fa pesante. Nessuno fiata, siamo tutti in preda al terrore. Oltre la collina, il fumo nasconde alla vista il macabro paesaggio di morte. Quando il viaggio sul carro iniziava ormai a sembrare eterno, se pur lontani dalla meta, i comandanti ci fanno scendere, dandoci una lieve pacca sulla spalla in segno di riconoscimento o di incoraggiamento, o chissà, di addio.
Siamo tutti affranti, la sera, al campo, un compagno, ex barista chiamato alle armi, ci distribuisce birra, purtroppo non fredda, un altro commilitone carne succulenta. Ed è a quel punto che capiamo. Era l’inizio della fine. Schiacciati dai brutti pensieri, ci addormentiamo. Il risveglio, l’indomani, è brusco, i tenenti ci svegliano con un campanaccio a dir poco assordante, ci fanno prendere l’attrezzatura, caricare i fucili ed infine ci ordinano di togliere la sicura. In un baleno siamo in trincea, uno stretto all’altro, ricordando i bei momenti vissuti prima dell’inutile guerra. Ricordo la mia splendida moglie e mio figlio, che ormai è diventato grande, chissà che futuro avrà scelto, da bambino voleva fare il barista, come suo papà. Poi, d’un tratto, il ricordo di come si vive normalmente svanisce, la normalità in guerra diventa la sopravvivenza.
Usciamo dal fangoso fossato e iniziamo a correre come nessuno di noi aveva mai corso prima, vedo uomini cadere, ma in addestramento ci hanno insegnato ad andare avanti, ai feriti avremmo pensato dopo. Sento fischi di proiettili che mi passano accanto sfiorandomi le orecchie, ma mi ripeto in testa “CORRERE CORRERE”. Inciampo, ma non perdo la concentrazione e sparo contro i nemici. Mi fermo. Ricarico la mia arma, scorgo un uomo che si avvicina, capisco che non è uno dei nostri dalla fascia arancione avvolta sul suo braccio. Non so cosa mi prende ma sparo d’istinto. Lo colpisco un paio di volte, finché non lo vedo accasciarsi a terra. I suoi compagni mi vedono ed io corro a rifugiarmi dietro le radici di un albero caduto. Spero di non essere scoperto. Ormai è la fine. Al suono dei proiettili sul legno, penso al perché di ciò. “Perché c’è la guerra? Che senso ha, se alla fine siamo tutti perdenti? Non ricordo alcuna guerra che abbia portato benefici ma solo fame, dolore e distruzione”. Quando ti arruoli ti insegnano a non fidarti del nemico, ti mettono in guardia sulla sua letalità e sul suo istinto omicida, come in una sorta di favola per bambini in cui tu sei l’agnello, il nemico il lupo. Nella mia prima battaglia, però, ebbi modo di capire che era esattamente il contrario. Quelle poche volte che ci fu un faccia a faccia con un soldato nemico capii che per lui ero io il lupo cattivo. E così avanti in un ciclo senza fine di morte, distruzione e massacri, al punto da diventare insensibile a ogni tipo di dolore. La guerra è così, non puoi fare nulla per cambiarla, basterebbe solo non iniziarla, poiché in essa non esiste un buono e un cattivo: si uccide e si viene uccisi.

Terzi Classificati

Listina

H-Farm International School

“Il cemento che circonda”

Sono ormai 75 anni che sono qui, ho visto edifici venire costruiti, case distrutte, persone crescere, piangere, amare e cambiare.
Niente e nessuno è mai rimasto, le cose sono sempre comparse e scomparse davanti ai miei occhi, tranne lui, Nicola, che ogni giorno percorre il parco e si ferma proprio davanti a me, una piccola radice di un albero, uno dei pochi rimasti.
Nicola è cresciuto davanti ai miei occhi: lo ricordo ancora correre con il suo cane ogni pomeriggio dopo scuola, mentre urlava che non voleva tornare a casa perché voleva ancora giocare. Ricordo i suoi occhi pieni di gioia, brillavano tantissimo e avrebbero fatto sorridere anche un albero, anzi, per quanto sia possibile, ci sono riusciti.
Poi è cresciuto, è cambiato e i suoi vestiti sono diventati scuri proprio come il suo sguardo. Spesso passava la notte appoggiato al mio albero a fumare e la felicità, che da bambino veniva raggiunta con una semplice corsa, adesso si faceva sempre più lontana ad ogni tiro di sigaretta che decideva di fare, evaporando come fumo.
A volte parlava da solo, o magari parlava a me, non lo so, ma ripeteva di non essere abbastanza, raccontava di come il suo mondo stesse crollando proprio come il mondo esterno, ed in effetti mentre prima decine di alberi e radici mi tenevano compagnia, adesso c’era solo Nicola e il tanto cemento che ci circondava.
Purtroppo credo proprio che il suo mondo si stesse distruggendo veramente visto che passarono mesi e lui non l’ho più visto; prima di rivederlo attraversai stagioni che si accorciavano e amalgamavano sempre di più, persone che passavano tempo all’aria aperta sempre meno e strade ed edifici che si avvicinavano sempre di più, anche se, per quello che vidi, avrei preferito non rivederlo.
Camminava lentamente, con una coperta sulle spalle e un cartoncino in mano, che però non riuscii a leggere. Si distese a fianco a me e mise davanti a sé un cappello, mentre fissava il vuoto. Non tornò più a casa, non si alzò mai da quel punto e, per la prima volta, speravo che se ne sarebbe andato. Invece no, passavano mesi e lo vedevo dimagrire e spegnersi ogni giorno di più e mi spezzava il cuore vedere che quella semplice e ingenua felicità, che provava ogni giorno da bambino, adesso appena lo sfiorava leggermente quando un passante gli donava un po’ di cibo, che lui mangiava come se fosse la cosa più succulenta del mondo.
Poi una sera arrivò e mi raccontò, o almeno così mi piaceva pensare, che aveva trovato un lavoro da barista in città e che quel parco in cui ci trovavamo gli sarebbe mancato, ma che stava rincorrendo la felicità per lui e per me, l’albero che lo aveva visto crescere. E infine, prima di alzarsi ed andarsene per sempre, mi confidò: ” Rincorrerò la felicità anche per te che non puoi muoverti da qui ed hai visto il mondo e le persone attorno a te distruggersi, correrò anche per te, amico mio.”

Secondi Classificati

Ladies Gaga

Collegio Salesiano Astori

“Oggi ho vinto io”

Arrivavo sempre primo alle gare di atletica. “Un corridore nato”, diceva il mio istruttore. Tagliare il traguardo e voltarsi a guardare chi era dietro. Non sono mai caduto, nemmeno una volta. Oggi gareggio contro le bombe. E nella gara più importante della mia vita sono scivolato. Vincere oggi non significa alzare una coppa, significa sopravvivere. Il fango mi entra in bocca, nei vestiti, nelle scarpe. Un lampo. Uno scoppio. Ho paura. Il fischio dei proiettili mi stordisce. Mi copro le orecchie, non voglio più sentire. Piango. Sono a terra, sulle radici degli alberi spogli e l’asfalto gelido. Sono stanco, non voglio cadere di nuovo, rimango immobile. correre “Ragazzo scappa!” Una presa vigorosa mi solleva da terra, mi scuote: “Al bunker, devi al bunker, hai capito? Corri!”
Non guardo chi ho davanti, lascio che le sue parole riaccendano la mia ragione. Come un soldatino eseguo gli ordini: tolgo la terra dagli occhi, mi sporgo in avanti e le gambe vanno da sole. Dei ricordi confusi mi permettono di tracciare un itinerario verso quella che, spero, possa essere la salvezza. Prendo piccoli respiri veloci, l’aria tossica e intrisa di fumo mi mozza il fiato, mi penetra nei polmoni, devo correre. Faccio lo slalom tra i detriti e metto a fuoco l’obbiettivo, che oggi non è un nastro ma una bandiera azzurro-gialla appesa sulla porta di un edificio divelto dai bombardamenti.
Entro e mi trovo davanti una rampa di scale. Più scendo e più fa freddo, l’umidità mi penetra nelle ossa. Con un braccio mi proteggo la testa dai calcinacci che precipitano dalla tromba delle scale. Mi chiedo se e quanto resisterà questo rifugio. Lo scantinato si apre di fronte a me, persone ovunque, sedute a terra, distese. Solo un mormorio sommesso. Alla luce fioca delle torce percepisco l’angoscia di chi è già lì, chissà da quanto. Qualcuno si stringe al proprio vicino e mi fa spazio per accovacciarmi. Man mano che il respiro si regolarizza, anche i pensieri riprendono forma. Penso a mio padre e mi chiedo dove sia e se sta bene. D’indole e carattere gentile, non è adatto a fare il soldato. Era un
barista
, ma come tanti è stato costretto ad arruolarsi. Una mano sporca mi offre una razione K, ringrazio con gli occhi perché la voce non esce. Non è invitante. Con una fitta al cuore torno alle domeniche pomeriggio in famiglia, dopo le gare di atletica. Il profumo dello strudel di mamma che si diffonde per tutta la casa. Quello sì che era succulento. Porto alla bocca il cibo offerto, non è male, ha preso il sapore dei ricordi.
Tiro fuori una foto dalla tasca, è sporca di fango ed ha un angolo leggermente strappato. Noi quattro tutti insieme: papà, mamma, mia sorella Anja ed io. Felici. La guerra sradica, spezza, distrugge, uccide. Ma io devo continuare a correre. Per quelli come papà che combattono per difenderci, per quelli come mamma ed Anja che mi aspettano al confine, per quelli come il benefattore che oggi mi ha salvato. E perché domani potrebbe essere la mia, di voce, a salvare una vita.

Primi Classificati

Gli esiliati

Liceo Amedeo di Savoia Duca D’Aosta

“Binario 7”

Caro diario, mi annoio.
I sedili emanano un odore stantio e non ho più la cognizione del tempo. I tavolini sporgenti dalla parete sono unti e presentano graffi di usura.
Solo ora mi accorgo che su questo treno aleggia un silenzio assordante, nessuno fiata. Una donna dall’aspetto bonario si è seduta accanto a me, nonostante il vagone sia quasi vuoto. È robusta, con qualche ruga e ciocche di capelli grigi intorno al viso paffuto. Ha tra le mani una succulenta verde oliva dalle foglie carnose. La stringe delicatamente al grembo, come se fosse il suo gioiello più prezioso. Le radici della pianta debordano dalla terra ancora umida, probabilmente è stata messa in vaso di recente.
Non so come sono finito su questo treno.
Ricordo solamente una comune stazione ferroviaria, uguale a tante, fatta eccezione per l’assenza di altri binari oltre al numero 7. La mia vista era annebbiata dal fumo della locomotiva in arrivo. Il suo fischio mi aveva istintivamente fatto tappare le orecchie, mentre rallentava. Mi sentivo perso, ma sapevo di dover salire su quel dannato treno. Le mie gambe molli, senza controllo, spingevano verso le porte cigolanti. Per poco non mi sono scontrato con un uomo in giacca e cravatta che camminava concitato con una ventiquattrore in mano. Mi sono seduto, come al solito, vicino al finestrino.
Adesso davanti a me è apparso un signore composto e pallido. Non l’ho sentito arrivare. Dalla divisa deduco che si tratti del controllore. Mi trasmette una certa inquietudine nel suo modo di muoversi cupo e veloce. Tira fuori dalla tracolla blu un timbrino scintillante.
Non mi guarda neppure, si limita a chiedere il biglietto.
Mi frugo nella tasca dei pantaloni e lo tiro fuori. Buffo, non ricordavo nemmeno di averlo addosso…
Lo timbra rapidamente, poi passa al sedile successivo, verso un tizio sulla sessantina con una bottiglia di Jack Daniel’s. Lo osservo meglio. Bizzarro, somiglia davvero moltissimo al barista che lavora nel mio paese.
Ma non era mancato due giorni fa?
Il controllore lo fa alzare e lo accompagna nel vagone successivo. I due spariscono insieme. Che situazione assurda.
In realtà è tutto molto strano, però non mi sento a disagio. Anche se non ricordo come sono finito su questo benedetto treno, o dove sto andando, è come se non me ne importasse più. Come se non avesse più senso domandarselo.
Caro diario, mi sento sollevato ed esausto allo stesso tempo. Come se avessi appena smesso di correre.
Qualcuno deve aver aperto un finestrino perché l’aria si è alleggerita e il vagone si è rinfrescato. Sento parlare.
Mi accorgo che il tipo con la ventiquattrore si è sistemato giusto dietro di noi e fa battute ad alta voce. La donna con la pianta ride di gusto. Ha quasi le lacrime agli occhi.
Si sta creando un clima sereno.
Adesso ho la sensazione di essere esattamente dove dovrei essere. È tutto così naturale. Penso che chiuderò gli occhi per un po’. Spero che il treno si fermi in un bel posto ma ho come la sensazione che sarà proprio così.

 

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