“Le parole” di Franca Tamai

Sei e venti. Le parole escono dalla radio, mi accompagnano nel torpore che precede il trillo della sveglia che suonerà fra quindici minuti. Mi piace la consapevolezza che ho ancora un po’ di tempo per cercare un ritaglio di sonno, ogni tanto apro gli occhi e controllo quanti minuti mancano, ancora dieci.

Le parole mi passano accanto, mi accarezzano, mi fanno compagnia. Nel dormiveglia sento dei nomi, non capisco subito, come quando per strada ti accorgi di aver visto qualcuno che conosci, ma lo capisci quando ormai sei già lontano, come se gli occhi e il cervello avessero impiegato troppo tempo nel mettersi in contatto.

Mi sveglio e ascolto.

Tremendo terremoto. Magnitudo sei. Lazio. Marche. Umbria. Abruzzo. Epicentro. Accumoli. Castelluccio di Norcia. Amatrice. Arquata. Gualdo.

Staffilate e quel nome che mi rimbomba in testa: Gualdo. Mio padre. Mi sento un vuoto allo stomaco e le gambe mi tremano, prendo subito il telefono che ho accanto e faccio il numero.

Squilla, uno, due, tre, infinite volte, mi sembra di sentirlo suonare in cucina, dove è posato, sopra la credenza, m’immagino la stanza vuota che accoglie il suono, il freddo della stufa spenta, i balconi ancora chiusi. “Perché non rispondi papà?” E lo dico a voce alta, perché mi possa sentire. Lo immagino per terra, sotto i calcinacci, magari lo sente e non può muoversi. E poi una sfilza di pensieri, perché non sono andata a casa questo mese, perché non gli ho telefonato ieri sera, perché non mi sono preoccupata quando l’ho sentito stanco, perché non mi sono portata a casa la verdura del suo orto che mi aveva preparato, perché non vado in cimitero da mia madre, perché non l’ho abbracciato più stretto, perché, perché.

Devo telefonare in ufficio che oggi non vado, prendo la macchina e parto, sono quattro ore di viaggio, per le undici sono lì. La mia mente immagina, pensa, si muove frenetica, ma io sono ancora seduta sul letto, incapace di alzarmi. Intanto il telefono non suona più, ha terminato il suono, finita l’illusione di sentire lo scatto del ricevitore. Mi faccio forza e cerco i vestiti che ho lasciato sulla sedia, devo partire, subito. Riempio una borsa con un po’ di cose, controllo i soldi nel portafoglio e mi guardo allo specchio del bagno. Sono pallida. Di colpo si è fermato il mondo, voglio che torni tutto come prima, non può cambiare così in un attimo, mi sembra che tutto scivoli via, senza che io possa fare nulla.

Prima di uscire riprendo il telefono e ricompongo il numero, due squilli e sento un silenzio. Hanno sollevato la cornetta.

«Papà sei tu? Come stai? Cosa è successo?»

«E’ successo il finimondo, tutto che tremava, è caduta la baracca degli attrezzi, ma la casa ha tenuto, io sto bene, anche se ne ho presa di paura».

«Anch’io ho preso paura, ma perché non rispondevi?»

«Ero dalla Pina, a tirare il latte, era là che muggiva, povera bestia, non lo sa mica lei, che c’è stato il terremoto».

«Grazie papà», e il sangue ricomincia a circolare.

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