“Marghera, 6 maggio 1976” di Carla Nogarin

La sera di quel 6 maggio, insolitamente calda, mi trovò in pigiama sul letto a ridere con mia madre, mentre mio padre in bagno si preparava ad andare al lavoro.

Ricordo che all’improvviso avvertii una sensazione strana, una sorta di capogiro, poi fu tutto un rombo, come essere seduti su un martello pneumatico che trapana la roccia. Si sentivano cadere oggetti in ogni stanza, ovunque vi fossero piani su cui poggiasse qualche cosa.

Mia madre mi disse di mettermi sotto la porta, ma non ci pensai nemmeno e mi precipitai giù per le scale dal quarto piano facendo i gradini tre alla volta, ma non avevo calcolato che anche gli altri inquilini avrebbero fatto lo stesso. Ci trovammo bloccati al secondo piano, e all’improvviso la luce si spense. Nel buio percepivo corpi che si dimenavano, urla, pianti di bambini, gente che gridava di aprire il portone. So di aver calpestato più d’una persona mentre avanzavo reggendomi con le braccia aperte alle pareti che si allargavano e si stringevano, nelle orecchie quel rombo ossessionante per un tempo infinito che sembrò un’eternità. Finalmente qualcuno riuscì ad aprire il portone e potei uscire. Quel respiro sembrò il più bello che avessi mai tratto in petto!

Il mondo smise di tremare, e con lo scemare della paura ripresi il controllo dei miei sensi. Ricordo la ragazza del secondo piano in mutande e nient’altro addosso, qualcuno le prestò qualcosa per coprirsi.

Pian piano gli otto appartamenti si svuotarono, ci allontanammo dalle case per paura di nuove scosse e uscimmo in strada, dove i lampioni erano spenti, e nel tenue chiarore della notte potevamo osservare i fili della luce ondeggiare come corde girate da bimbe giocose.

Solo allora mi resi conto degli allarmi delle fabbriche che suonavano impazziti mentre all’orizzonte spiccava il rosso delle fiaccole che sputavano fuoco, e nella mia mente di ragazzina si aggiunse la paura che qualche serbatoio rilasciasse il suo miasma velenoso inodore e incolore nell’aria.

Non c’erano, allora, i moderni mezzi di comunicazione, nessuno smartphone con cui accedere alla rete per sapere in tempo reale dove fosse l’epicentro. Un coraggioso risalì per andare a recuperare una radiolina che ci aprì una finestra su quel mondo distrutto e martoriato che era diventato il Friuli quella sera. Le parole gracchiate dalla piccola radiolina non potevano avere l’impatto straziante delle immagini televisive, ma fu abbastanza perché potessimo renderci conto della vastità del dramma e tutti concordavano: “Se qua lo gavemo sentio cussì, figurate eori puareti!”

Dormii vestita per mesi, tanto che la scossa del 15 settembre, alle 5 del mattino, mi trovò accanto all’ingresso. Avevo a quel tempo un caro, grosso gatto, e quando lo vedevo avvicinare alla porta di casa senza motivo apparente, già aprivo l’uscio pronta a scappare. Non mi era bastata la prima esperienza e non imparai mai a mettermi sotto la porta, ancora adesso è incontrollabile l’istinto di fuggire all’aperto.

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