Ricordo di Tullio De Mauro

Ho conosciuto Tullio de Mauro nell’estate del 1966, a Montebelluna, durante un corso di formazione in Linguistica, organizzato dal Movimento di Cooperazione Educativa. Appartenevo al Movimento dall’anno 1963 e avevo già partecipato a numerosi corsi estivi di “matematica moderna”, meglio identificata come insiemistica, sempre all’interno della formazione che durante il periodo estivo il già citato movimento era solito offrire ai suoi iscritti.
La formula collaudata della scuola estiva di formazione era quella di coinvolgere esperti di chiara fama della disciplina scelta, affiancati dalla professoressa Lydia Tornatore, notissima docente di psicologia dell’apprendimento, la quale ci  faceva lavorare in maniera laboratoriale, per tradurre in una didattica accessibile ai bambini della scuola elementare i concetti disciplinari epistemologicamente corretti ed i nuclei fondanti  delle discipline stesse. Le idee bruneriane infatti erano allora appena state diffuse all’interno del movimento e noi eravamo tutti presi dal sacro fuoco dell’innovazione. Il clima era caratterizzato da una grande passione e come sempre ci davamo appuntamento nelle varie parti d’Italia, laddove fosse stata organizzata la scuola estiva, ogni volta con il medesimo entusiasmo dei neofiti, spinti dalla fermentativa idea di cambiare la scuola ed insieme il paese…
Quell’anno toccava alla linguistica moderna, la sede scelta dal segretario del momento, Dino Zanella, fu Montebelluna, nella terra veneta, generosa di specialità eno-gastronomiche alle quali era possibile attingere anche ricorrendo alla  “strada del vino bianco” che si srotolava tra le colline del trevigiano e che De Mauro potè conoscere ed apprezzare.
Tra i corsisti ricordo che c’era anche Alberto Alberti, allora baldo giovane, entusiasta e romantico. Aveva pubblicato un libretto di poesie che mi regalò, etichettandolo però come “peccato di gioventù”.
Alberto fu testimone di un episodio (chissà se lo ricorda) che a me  restò impresso nella memoria e che ora desidero rendere noto perché caratterizza l’impegno pedagogico-politico che contrassegnava quel periodo storico e tratteggia un aspetto della personalità di De Mauro: l’ironia.
Eravamo tutti accomunati dal fervore socio-politico della fede incrollabile nel valore della scuola che doveva, come istituzione della Repubblica, rimuovere gli ostacoli (art.3 della Costituzione) che impedivano la realizzazione del senso di cittadinanza in tutti i soggetti che la frequentavano, l’autorealizzazione  e, in definitiva, l’ effettiva attuazione della democrazia. L’ostacolo maggiore nella scuola era l’ignoranza e la non padronanza della lingua italiana,  base fondamentale della comunicazione interpersonale e strumento del pensiero. Tullio de Mauro trovò perciò terreno fertile per le sue appassionate dissertazioni. Durante una di queste si lanciò in una difesa a spada tratta della importanza dei contenuti della comunicazione aldilà e al di sopra della correttezza grammaticale o sintattica. Ciò che era fondamentale era la possibilità che l’enunciato permettesse il passaggio del “significato” o del “senso” della comunicazione, l’intenzione reale del parlante, decodificabile dal ricevente. Era chiaro l’obiettivo: dare dignità agli enunciati dei soggetti che ancora non padroneggiavano la lingua per rimandare ad un secondo momento l’apprendimento di altri aspetti e delle altre funzioni linguistiche. Ad un certo punto fece degli esempi, presi anche dal dialetto. Comparve la frase:”io ho andato”, usata in Italia centrale, con l’osservazione di de Mauro che questa espressione, alla luce di quanto brevemente appena riassunto, poteva essere accettata. Io a qual punto, da giovane “maestrina”, sentii una interna ribellione che non potei trattenere. Durante la pausa mi avvicinai all’illustre Maestro e gli rivelai le mie perplessità. Con un fair play ammirevole, Egli mi fissò e consumò la sua dotta “vendetta” : Ah, sì? Ma lei lo sa che ha una “esse sibilante” che di sicuro non appartiene alla dizione perfetta della lingua italiana…?! Assaggiai così la famosa ironia dell’insigne linguista. Rimasi senza parole e mi sentii impropriamente una radical chic, prestata alla scuola elementare. Girai i tacchi ed andai a consolarmi presso gli amici, compreso Alberto, raccontando il fatto ma riflettendo molto sul senso di quell’osservazione  che mi insegnò il decentramento del punto di vista e mi diede sul campo una lezione intorno al senso profondo della valutazione.
Ripescai più volte dalla mia memoria questo episodio non come un banale aneddoto, come potrebbe sembrare a prima vista, ma anche come un segnale dell’importanza sacrosanta del “criterio valutativo” di prendere in considerazione il punto di partenza per calcolare poi i progressi. Ancora oggi invece spesso si fa coincidere la misurazione con la valutazione, senza nessun criterio valutativo esplicitato e  siamo ancora lontani dalla valutazione formativa.
Una decina di anni fa reincontrai Tullio de Mauro a Firenze, alle giornate di studio del MCE presso la Scuola città Pestalozzi. Gli ricordai l’episodio e ridemmo insieme con molta leggerezza ma forse anche con un velo di malinconia, ripensando allo slancio utopistico di quei tempi, a quella passione che non ci aveva ancora lasciato ma che col tempo si era temperata alla luce di una consapevolezza che qualcuno chiama “sano realismo”. Cosa siamo riusciti a realizzare di quell’idea di scuola che ci aveva così affascinato, in cui avevamo creduto fino in fondo?
Stiamo tutti oggi ricordando con ammirazione e gratitudine questo grande Maestro di scuola, cultura, vita, democrazia.
Ci stringiamo di più gli uni agli altri perché ci sentiamo un po’ più orfani ed anche più soli.

Cinzia Mion

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