“Tutta la creazione geme e soffre fino a oggi nelle doglie del parto in attesa di redenzione (Rm. 8,19)” di Chiara Germano

Respira ora questa terra come un bambino quando dorme, respira tranquilla. Questa mattina presto ha tremato ancora, ma io non ho paura.

Il monastero del milleduecento si arrampica sulla roccia del colle tenendo su le case in pietra come madre che mette in salvo i suoi figli. Ha contrafforti spessi e affondati in mezzo agli ulivi e finestre aperte sulla vallata umbra. Lascio entrare la sferzata d’aria fresca che mi arriva addosso come una sberla.

Sono trascorsi quattro anni da quando il buio mi ha gelato l’anima e quello che chiamo il mio terremoto raso al suolo le certezze, ma in questo giorno posso guardare la valle e le foglie argentee degli alberi e riuscire a respirare. I ranuncoli gialli tra l’erba ancora verde sotto gli ulivi e tra i cipressi. La leggera foschia che si allunga sotto la collina. Oggi posso pregare.

Ti avevo dimenticato, ma quando ti tocca la morte, ti stringe gli artigli sulla spalla lasciandoti monco, allora, a quel punto, con qualcuno devi prendertela. E ci sei tu. Creatore imperfetto, creatore distratto.

Ieri sera ci siamo radunati in chiesa nella penombra delle candele e nella musica di sottofondo e ti ho chiesto perdono. Ho acceso il mio piccolo lume, mi sono avvicinato all’altare e mi sono inginocchiato. All’improvviso un boato assordante come suono di fucile secco ha riempito gli spazi. Il pavimento come tappeto scosso con potenza ha sussultato e mi sono prostrato rannicchiandomi su me stesso con le mani sopra la testa. Qualcuno raschiando la sedia sulle pietre dure è scappato lontano. Non io che sono rimasto là, sulla pancia della terra.

Ho perso un figlio strozzato a una corda. Stefano era un ragazzo normale, un po’ timido forse. Dov’era la paura, nelle unghie tormentate e grattate fino a farle sanguinare? Dov’era il coraggio di un gesto senza ritorno, negli occhi spalancati di sfida? Avessi potuto stritolare qualcosa con queste mani grosse e ruvide, avessi potuto affondarle nella terra e strapparne le viscere.

E invece sono qui. Fermo, calmo e in silenzio.

Sono uscito presto una mattina dell’estate passata per andare a caccia con gli amici. La natura era bella al risveglio, umida del fresco notturno come donna acerba e piena di sorprese. Pochi minuti più tardi il sole avrebbe scaldato il sentiero e asciugato le foglie. Ho camminato lungo il passaggio fino all’aprirsi di una radura dove gli alberi si dischiudevano al cielo e la luce colmava l’aria. Mi sono fermato, ho posato il fucile e allargato le braccia. L’erba m’invitava a sdraiarmi. Il cielo sopra di me immenso, le nuvole lente e la rugiada sulle mani. Udivo le voci degli amici spente e lontane chiamarmi per accerchiare il cinghiale. Sentivo gli occhi chiudersi alla luce e mi lasciai scaldare. Rimasi là. Non ci furono più resistenze, non ci furono più perché.

Un calore di fuoco entrò dentro e sorrisi alla vita.

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